Intervista rilasciata a Repubblica 14/02/2003
Le
città che da allenatore ricordo con più piacere sono Giarre, dove andavo
sempre a pescare e Trieste dove in certi bar i vecchi andavano a giocare a
dama e a parlare di letteratura. E io stavo lì ad ascoltare. Ma adesso non
ho più tempo".
Lei ha smesso di giocare nell'83. Quasi vent'anni fa.
"Sì a 38 anni, dopo 18 campionati, l'ultimo a Como, ho fatto anche una
stagione in Svizzera, un ambiente tranquillo, pagano bene, ma non è calcio.
E poi sono razzisti, se non parlavi in tedesco i giornalisti non ti stavano
a sentire, anzi per protesta abbandonavano la sala-stampa. Io ho cominciato
presto a giocare a calcio, sono nato a Ponsacco, in provincia di Pisa, nel
'45, facevo i sacrifici per andare ad allenarmi a Pontedera, 60 chilometri
tra bici e corriera, a 19 anni arrivai nel settore giovanile della
Fiorentina, niente prima squadra, c'era Chiappella come allenatore e in
campo gente più brava di me, Chiarugi, De Sisti, Merlo. Così cominciai a
girare l'Italia: a Cesena in C, a Empoli, a Lecco, a Como, a Rovereto, a
Piacenza, a Perugia, ad Avellino giocavo con Roggi, con Montesi, che sul
calcio diceva delle cose terribili ma vere, e che in campo dava l'anima, con
Galasso che era di Lotta Continua. Come allenatori ho avuto Bersellini,
Marchioro, Marchesi. In serie A ho segnato tre gol, a Tancredi, Piotti e
Bordon. Ero soprattutto un organizzatore di gioco. Ma sono diventato famoso
perché nella partita Milan-Avellino, nel 1978, avevo dimenticato i documenti,
e l'arbitro Mattei fu inflessibile. Disse che non mi conosceva e mi fece
accomodare in tribuna. Il giorno dopo alcuni giornali riportarono le foto di
tutte le volte in cui Mattei mi aveva arbitrato".